Uzbekistan racconto di tre vite

Azat Jhon ha ventidue anni, lo incontriamo al calar del giorno durante i primi chilometri in Uzbekistan. Vive per sei mesi l’anno in un vagone carrozza in mezzo alla steppa con suo padre Bob Jhon e sua madre Bertashi. Sono produttori di miele, svariate arnie sono su un secondo vagone a poca distanza dalla loro dimora mobile.
Intorno il nulla, forse un pozzo per l’acqua. Azat Jhon è uzbeko, ha gli occhi neri, le mani forti, una camicia rossa logora, la pelle dipinta dal sole. Ci confessa che non gli piace continuare il lavoro del padre, nonostante il buon profitto, il doversi spostare ogni due mesi alla ricerca dei fiori per le api. Lui vorrebbe un luogo stabile, in una città moderna, per poter trovare il suo fiore e il suo perchè. Azat Jhon ci guarda con un sorriso geloso, la nostra tenda è forse simbolo per lui di libertà mentre la sua carrozza gli stringe il cuore, perchè a ventidue anni non si è ancora pronti per un eremitaggio seguendo i tempi della natura. Con l’umiltà di un nobile vive con suo padre nel passato, ma noi lo vediamo bene, i suoi pensieri sono piccioni viaggiatori nel futuro.

Slava è un ragazzo simpatico di ventisei anni, lo incontriamo durante una cena con amici a Tashkent, dove lavora e studia architettura,. E’ nato in Uzbekistan da genitori nati in Uzbekistan, da nonni emigrati in Uzbekistan dalla Corea nel 1930. Slava afferma di essere coreano. Slava parla come lingua madre Russo, conosce sicuramente meglio di noi la storia dell’arte italiana, comunica con noi in inglese in maniera fluente. Durante la guerra civile coreana ormai un secolo fa, diversi cittadini scapparono dal paese e si rifugiarono nella vicina Russia. Anni dopo Stalin, preoccupato da queste minoranze, li trasferì in blocco verso l’Uzbekistan, terra di mezzo, più controllabile e bisognosa di manodopera. I locali uzbeki però, essendo mussulmani, non hanno mai permesso matrimoni misti, così i numerosi coreani non si sono mai integrati pienamente e tuttora sono una discreta comunità. Slava non parla coreano ma non si sente uzbeko, si chiede chi sia se non è né l’uno né l’altro. Pacificamente però prova a trovare il suo spazio, perchè crede che non sempre siamo ciò da dove veniamo, ma a volte ciò da cui stiamo andando..e come noi si sente l’ultimo cittadino europeo prima della grande Asia.

Tatyana è la signora che ci ospita in casa sua nella capitale Tashkent, dove è nata quarantadue anni fa. E’ di origine russa e il russo la sua lingua, rifiutandosi di imparare l’uzbeko dove vive. I suoi genitori vennero a Tashkent nel 1966 dopo il grande terremoto che distrusse gran parte della città. La grande Russia inviò in questa sua regione allora non ancora indipendente, diversi lavoratori per ricostruire la città. Molti di questi poi decisero di fermarsi a vivere nelle nuove case costruite. Tatyana sembra disillusa dal futuro, svogliata. Non ha la fiducia nel prossimo così come nella polizia e nel governo del paese. Parla spagnolo con noi e spesso quando esce di casa gioca a essere straniera per non dover troppo interloquire, per aver la scusa di non voler rispondere a chicchessia. Con noi è gentile, ma si percepisce un grande vuoto in lei. Vorrebbe vivere nel suo paese, la Russia, ma si trova come tanti altri qui, in questa terra di passaggio tra la Russia europea e la Cina, a vivere non a casa propria. Tatyana è una signora solitaria, si prende cura dei suoi genitori divorziati e anziani, ma non vuole figli, non vuole obbligare altri a vivere dove non hanno chiesto.

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